28 ottobre 2015

tepore



Mi è capitato spesso, soprattutto negli ultimi anni, di pensarmi e definirmi “un cuore in inverno”.
Esprimendo il pensiero ad alta voce, venivo puntualmente zittita e contraddetta…
-          No no…tu non sei fredda per niente!
Infatti non sono fredda. Questo, nel bene e nel male, lo so.
L’equivoco nasce dal riferimento al film di Claude Sautet che porta questo titolo.
Nel film si narra sì di un cuore ibernato, di una paura d’amare (ed essere amati) paralizzante, che al rischio preferisce la rinuncia.
Un cuore in inverno può essere freddo e distaccato, può aver deciso ad un certo punto del suo battere incessante che non può più far entrare niente.
Niente di più di quello già presente, e magari già ingombrante.

Ma non è in questo quadro che mi riconosco e mi definisco.
Un cuore in inverno può sentirsi così perché ha freddo
Un cuore intirizzito dal freddo, ecco.
Può sentire un freddo tagliente, che non passa mai. Anche se ti infili sotto le coperte e te le tiri su fino a coprirti il viso. Anche se ti accendi un bel fuoco scoppiettante e lì ti incanti…
Ci sono inverni, dentro a certi cuori, che non conoscono la primavera che li aspetta e che li sostituirà. Che sempre sentiranno spifferi e correnti d’aria da cui ripararsi.
Ma il tepore, se non il calduccio, quello c’è, deve esistere! Non occorre strabuzzare gli occhi, volendo sarebbe sufficiente rilassare il respiro…
Forse tendervi è faticoso, e qualche volta non lo si vede proprio. Il tepore che arriva con una voce cara. Un gesto inaspettato e tuttavia anelato. Una poesia dedicata. Le cagnette abbracciate strette dentro la cuccia, i gatti di ogni età…pure.
E’ tepore. Certi giorni tanto basta e avanza.

25 ottobre 2015

Alleate

“[…] Eccomi a voi, anime grandi verdeggianti
mute creature che albergate una infinità
di vite piccole, e respirate, come noi.
[…]
Lo so alla perfezione: sono infelice
lontano da voi – che crescete
lentamente. Vi riconosco alleate.
Guardiane che tenete
in vita le nostre vite.”
Da: Mariangela Gualtieri, Le giovani parole, Einaudi, c2015

Non so dire davvero quanto mi senta grata a questa poetessa e alla sua interiorità viscerale, che nomina bene l'innominabile. Che trova parole sapienti.
Ogni volta che mi tuffo su una nuova raccolta dei suoi versi, mi sento come quando da bambini si mangiava lentamente una leccornia pensando così di scongiurarne la fine.
Belle emozioni...



13 ottobre 2015

Le figure che curano. Viaggio nell'abisso 1



Chi, per professione, sceglie di prendersi cura della mente umana dovrebbe fare molta strada, scendere nelle profondità più recondite, attraversarle e sentirle su di sé.
Di abisso deve vestirsi.
Chi mi sta di fronte, nell’avvincendarsi di persone sempre diverse, qualche volta segue la strana via del sospetto. Sei veramente quello che pensi e dici di essere? Come se mi fossi autodiagnosticata.
Sono troppo lucida… e penso
A chi giova questo sospetto? Non a chi è lì per essere curato/a. Che, casomai, necessiterebbe di accoglienza prima, e in definitiva di fiducia. Non parliamo di comprensione! Quella sembra risultare un lusso. Non sei lì per essere capita (che pretese!). Sei lì per essere curata.
Allora succede che chi fa fatica a credersi malato/a si ritrae, pensa che forse è così, che la malattia non esiste, l’ha detto persino una specialista!
Come non comprendere chi arretra e rinuncia? Come dare torto a chi è costretto a peregrinare dentro strutture, a cambiare stanze, corridoi, e poi scale, edificio…
Anche sapere di dover varcare sempre la stessa porta può costituire un’utile e rassicurante certezza.

[La mia rabbia si fa montagna quando il pensiero si fissa su questo interrogativo… Chi è responsabile delle anime erranti che smettono di curarsi e finiscono alla deriva?]

E l’umanità dolente… sembra essersi concentrata tutta lì!
Allora fai un respiro profondo. Ti siedi. Fai appello a tutta la razionalità di cui sei capace, non serve la sensibilità…anzi! Quella magari lasciala fuori dalla porta, ché può tirare scherzi mancini, può fare casino, creare equivoci equivoci equivoci….
All’inizio cerchi di leggere, non è un’ideona. Giocherelli con lo smartphone, cerchi un appiglio…Magari un contatto con chi sta-là-fuori…
Ma niente. All’improvviso un ragazzo gonfio e inebetito da (troppi o sbagliati) psicofarmaci si alza di scatto. Un tremore attraversa il mio corpo, mi spavento. Mi sento minuscola e tutta occhi.
Alzandosi, perde il cellulare che va a finire in tanti pezzi sul pavimento, in ogni centimetro calpestabile. Panico. Si avvicina una ragazza dai capelli lunghi, occhiaia profonde, sguardo perso… Cerca di aiutarlo a ri-assemblare i pezzi e ci riesce. Osservo con totale partecipazione. Poi, a quel ragazzo, riesco ad essergli utile anch’io prima che sparisca chissà dove.
Ore. Ore. Ore. Attese che non so sostenere. Ho bisogno d’aria e potrei uscire sul piazzale, ma poi magari perdo una delle persone che ogni tanto transitano nella sala, quelle preposte a dare informazioni. Devi beccarle al volo, prima che spariscano come attirate da invisibili magneti. Mi rendo conto che Tutti abbiamo qualcosa da chiedere. Tutti forse abbiamo un appuntamento che potrebbe vedere allungare i tempi di attesa di chissà quanto. Non ci è dato sapere.
Ogni volta che i miei passi si muovono là dentro vorrebbero scappare via. Ogni volta in un dialogo serrato tra me e me dico “non lo auguro a nessuno”.
Almeno, io non ci riesco. E tantomeno, credo, i miei compagni d’attesa. Intravvedo spesso l’umile sudditanza tra medico e paziente, vedo persone a capo chino che dicono sì sì sì… quasi incredule che qualcuno possa ancora aiutarle. Vedo corpi stanchi che non possono permettersi uno scatto di impazienza, menti anestetizzate, sguardi che mai e poi mai metterebbero in discussione parole proferite da chi indossa un camice.
Qualunque grado rivesta.
E’ appena uno spaccato, mi dico ogni volta, cercando di “uscire da me”, di guardare dal di fuori, come se non mi riguardasse, cercando di non cadere nel tragico. Quanta, quanta fatica per non scivolare nel dirupo. Quante energie per scongiurare…
Quanta compassione repressa. Ma la rabbia ancora esce, non la trattengo. Discuto ed esprimo dubbi e perplessità, tento come una formica di fronte all’elefante di far notare che c’è troppo troppo dolore inascoltato e non rispettato. Che l’empatia non può averla inghiottita la macchinetta che al mattino timbra il cartellino della presenza. Accidenti!
Ma mi sento sbagliata, anche arrabbiata mi sento sbagliata.
Le antenne tese a captare le ingiustizie non si volgono mai a mio favore. Una lezione che da bambina hanno invano tentato di impartirmi e che puntualmente si fa realtà e un po’ mi ammala.

11 ottobre 2015