20 febbraio 2016

Orazio


Villa Pamphili Roma

10 febbraio 2016

...perdonare...



E’ stato il caso oppure l’inconscio a farmi imbattere in un libro sul perdono scritto nel 2004 da Richard Holloway, ex vescovo di Edimburgo che a me è parso come una specie di Don Gallo anglicano.
Sono cresciuta, come tanti, in una cultura profondamente cattolica e mi sono interrogata spesso su alcuni concetti o predisposizioni dell’animo umano che forse non erano propriamente monopolio della Chiesa. Ecco, il perdono è tra questi. Il saggio è molto interessante per le incursioni nella filosofia, nella psicanalisi, nei testi sacri e nell’attualità. Soprattutto, mi risponde in maniera esaustiva laddove puntualizza e spiega molto bene la differenza tra religioni e istituzioni religiose. Prende in esame il concetto di “religione senza religione” espresso da Jacques Derrida e analizza alcune virtù, doti o sentimenti che non necessariamente sono riconducibili ad una appartenenza religiosa. Le Istituzioni religiose si sono arrogate il potere di veicolare alcuni sentimenti, come se da esse fossero scaturiti. Ma l’umanità, dove esiste, è una prerogativa dell’uomo. Non di una religione.
Se scollegati da ogni Istituzione, indulgenza e perdono sono atti profondamente intimi, cui si può scegliere di tendere oppure no. Non sono una persona rancorosa, dunque non credevo che un saggio sul perdono mi riguardasse o mi fosse anche solo utile. Sono caduta di fronte alla mia ignoranza, mi sono sbagliata. Intanto perché questa lettura ha fatto compagnia alle mie tristezze, e mi ha portato a riflessioni importanti per il mio percorso…
Poi, perché il perdono non è pensato solo verso gli altri, verso chi ci ha offesi, feriti, danneggiati ; l’indulgenza e il perdono delle proprie mancanze, di quelle parole pronunciate che sono diventate pietre per chi le ha raccolte… Più in generale, del male che possiamo aver fatto. Consapevoli o no.
Imparare l’indulgenza verso se stessi è un investimento, aiuta l’analisi della nostra vita e un po’ ci migliora.
Benché scritto da un teologo, il saggio soddisfa la mia impostazione laica e non mi sembra avere intenti moraleggianti. Si legge che perdonare non è imperativo, che si può comprendere e accettare chi non intende farlo… è umano. Perdonare però non significa dimenticare.
L’aveva espresso molto chiaramente Hanna Arendt… si può condannare per tutta la vita un’azione ma arrivare a perdonare chi l’ha commessa.
Quanto può risultarci inaccettabile questa prospettiva! Anche solo a sfogliare gli orrori, le atrocità, l’abominio di cui l’uomo è stato (ed è!) capace. Se ci soffermiamo su alcune ferite che ci sono state inferte e che per sempre ci hanno marchiati.
Sulle offese incancellabili.

C’è solo il perdono, se esiste, dove c’è l’imperdonabile [J. Derrida]

L’essenza del libro è riassunta bene in quarta di copertina:

“[…] La grazia del perdono incondizionato, che non aspetta il pentimento di chi ci ha offeso per elargire il suo dono, è il culmine della comprensione dell’altro e del mondo: non va annacquata, non va risolta in benevolenza generica. Essa accade, come la poesia.
Proprio la sua mancanza di ragioni, e se vogliamo la sua follia, è la risposta salvifica all’irrazionalità del male.”
Non è che ho bisogno di crederci, è che mi convince abbastanza l’idea del perdono (che tende al bene) contrapposto alla vendetta e al rancore corrosivo (che immobilizzano e tendono al male).