28 aprile 2010

la grande domanda

Probabilmente non c’è niente di più irresistibile, per un bambino, che porre domande.

Ah le domande! Vanno incoraggiate ed esaurite se possibile, soprattutto quelle che denotano una necessità di approfondimento. Ma rispetto ai bambini gli adulti tendono a perdere la capacità di porsi domande, figuriamoci quella di fornire risposte! Quante volte si risponde sbrigativamente...

C’è un libro a cui voglio particolarmente bene e che finalmente mi sono regalata, un “libro per bambini” (definizione inutile e insignificante) di Wolf Erlbruch che pone La grande domanda: perché sono venuto al mondo?

Le risposte, illustrate dallo stesso autore, arrivano via via da un pilota, da un cieco, dalla nonna, dal gatto etc., e per finire dalla mamma.

Le risposte che mi sono piaciute di più sono:

Quella imprevedibile dell’anatra: Non ne ho la più pallida idea.

Quella della morte: Sei qui per amare la vita.

Quella del cieco: Sei qui per avere fiducia.


Poi però col tempo, anche per questo non è solo un libro per bambini, scopro che altre risposte sono diventate più consone, a volte sento mia la risposta fornita dalla pietra: Sei qui per stare qui. E molto più spesso (ma è ora di dire basta!), la risposta del giardiniere: Per imparare la pazienza.

Infine, mi piace molto l’ultima pagina del libro, quella che contiene una tabella vuota dove si possono annotare, crescendo, le varie risposte raccolte o che da soli ci si è dati.

Una piccola perla che, nella (sotto)cultura dominante dell’apparire, parla di essere, e abitua ad interrogarsi


[Wolf Erlbruch, La grande domanda, Edizioni e/o c2004]



22 aprile 2010

L'ascolto

Riflettendo sul libro di Marina, L’Ascoltatrice, che ho letto e riletto una seconda volta, ho capito che qualunque cosa avessi scritto a riguardo mi avrebbe lasciata insoddisfatta, consapevole di non aver detto tutto. Voglio parlarne di questo libro, sapendo già che molto di ciò che non dirò resterà a lavorare dentro di me, in sotterranea.

Marina, per diversi mesi, si reca nella bellissima Piazza Vittorio a Roma e si siede su una panchina con accanto un cartello in cui spiega il suo intento, che è quello di ritrarre a parole, gratuitamente, le storie di chi vuole raccontarsi. Si siede e si dispone.

E al suo raccolto segue una semina: questo libro.

Vi assicuro: è una semina.

Sono pagine che avvincono, che coinvolgono i sentimenti più antichi, quelli che sono cresciuti con noi e che qualche volta siamo chiamati a tacitare. Perciò la fine vorresti non arrivasse, ne vorresti di più. Per entrare in una realtà familiare eppure sconosciuta, per sapere una volta di più che la vita che pulsa per strada non è quella che vogliono farci apparire. Se ci si sente parte di un’umanità e di questa si avverte la dolenza, di storie autentiche come queste si ha bisogno. Le storie degli invisibili, di chi non ha voce, storie di gente che trova protezione in una piazza e che ha voglia e bisogno di entrare nel gioco del raccontarsi. Gente che si porta appresso, come tutti i comuni mortali, il proprio carretto di tic, sofferenze, disagi, visioni del mondo, dubbi, desideri e sogni. E qualche volta nostalgie.

Coraggiosa Marina a raccogliere le vite altrui e coraggiose le anime che su quella panchina si sono avvicendate.


“L’incontro sulla panchina […] ci rendeva contenti in due, perché al mio bisogno di ascoltare corrispondeva quello di dirsi degli sconosciuti”


Questo darsi reciproco ci racconta di quanto talvolta sia più semplice, e per niente raro, aprirsi agli sconosciuti. E io ci vedo anche un’urgenza, da parte di chi ascolta come da parte di chi si racconta, quella di sentirsi PARTE di un’umanità. Non diversi. Non esclusi. Non sbagliati.

Non appena mi addentro nelle storie e nelle notizie sulla piazza, accompagnata dallo stile di Marina, che è ironico, profondo, partecipe, mai mai superficiale o affettato, le persone prendono vita. Ti sembra di incontrarle per strada, capita di continuare a pensare a loro e di sentirsi coinvolti dal loro destino. Perché a James blu ci pensi, a lui e alle sue chiese e al destino delle nostre preghiere. Pensi a Raffaele, che è un angelo sulla terra, e alla paura che attanaglia Juan il filosofo…E pensi pure a lei, a questa “dame agée” che col suo cartello giallo, scevra da pregiudizi, osserva e ascolta. E prende appunti.

Proprio come il suo blog, Marina è una fonte inesauribile di informazioni, quelle relative alla piazza sono preziose e ne stimolano la visita meglio di una guida turistica.

Prima che il lettore, prossimo alla fine del libro, senta già il distacco, Marina lo anticipa, e spiega quando dire basta. Confessa quanto sia stato difficile lasciare quella piazza e quella fonte di storie. Difficile e doveroso, come spesso sono le separazioni.

E’ uno di quei libri che anche quando lo finisci, lo guardi e sai che ti parla, ancora.

Io penso che quando qualcuno realizza i propri sogni, soprattutto quando dà ascolto al bambino che è stato, un po’ di quella felicità arriva anche a chi è solo spettatore. E sono felice che Marina abbia fatto questo passo e realizzato il suo sogno di bambina. Glielo doveva! (alla bambina).

Così mentre assistiamo impotenti al dilagare della diffidenza e della paura, mentre il leghista senso del territorio chiude le persone e legifera l’esclusione, ecco io vorrei che questo libro arrivasse in tutte le case e, siccome sono un’esagerata, anche alle stanze di potere, e con le sue storie potenti (queste sì!) scuotesse coscienze assopite, vorrei che come un sussurro suonasse all’orecchio di chi non pratica l’integrazione, di chi coltiva indifferenza e supponenza.

Ecco perché, secondo me, il motivo per cui tutti dovrebbero leggere questo libro è che, attraverso una scrittura alta, si assiste a quanto può essere bello non aver paura degli altri.


[Marina Pierani, L'Ascoltatrice, Gruppo editoriale L'Espresso, 2010]

18 aprile 2010

...per le vie del centro...

Per motivi di lavoro, ho dovuto trascorrere il fine settimana in città e già da qualche giorno prima la prospettiva aveva inciso sul mio entusiasmo e minato quel leggero senso di sollievo che si prova in prossimità del fine settimana.

Ma la vita smentisce spesso le nostre cupe previsioni, soprattutto quando sono esagerate, così mi sono ritrovata nel bel mezzo di una iniziativa spettacolare.

I commercianti avevano ingaggiato alcuni vivaisti per trasformare le piazzette del centro storico in giardini pensili.

A bocca aperta ho vagato per il centro storico che offriva un tripudio di colori, una festa per gli occhi che prendeva a schiaffi la mia indisposizione d’animo.


Abbondantemente appagata, a quel punto potevo affrontare qualunque sacrificio, avevo ricevuto la mia bella dose di bellezza, per giunta inaspettata!



Quando sono andata via mi è sembrato di vedere un grosso cartello alle mie spalle che diceva

“Hai visto, brutta brontolona, che bella sorpresa?”

13 aprile 2010

esercizi

Se è vero che chi ha il caos dentro ha bisogno di ordine fuori, è altrettanto certo che le abitudini sono per qualcuno LA rassicurazione per eccellenza, la conferma che, sì, le cose sono al proprio posto e noi non siamo in pericolo.

Coltivo ben bene i miei riti quotidiani ma mi diverto anche a sovvertirli. Un po’ mi sono convinta che le rivoluzioni che opero sulle abitudini siano dei piccoli esercizi contro la rigidità. Io devo proprio allenarmi ai cambiamenti e la rigidità mi fa paura.

Così ogni tanto opero delle piccole variazioni sulla sequenza con cui in genere faccio le cose, o sul percorso che mi riporta a casa…piccole cose che mi diano la prova che non sono maniacalmente attaccata ai gesti quotidiani. Ovviamente capita che mi confonda, ma anche la confusione certe volte ci serve…

Ogni tanto ho bisogno di accertarmi che non sono quella che non vorrei essere, sicuramente potrei cercare conferme in azioni più nobili, ma mi accontento di queste minuscole rivoluzioni dei gesti.



6 aprile 2010

...andare e tornare...

Ringrazio tutti quelli che sono passati per gli auguri di pasqua e mi scuso per non aver potuto ricambiare…ho fatto un piccolo viaggetto che doveva servire a lucidare gli occhi e ritemprare lo spirito un po’ abbacchiato.
Mi sono lasciata incantare da Bruges che abitava da tanto tempo le mie fantasie nate da pagine letterarie, da biografie di pittori fiamminghi e da chissà cos’altro….
Bruges era nella mia testa perché senza conoscerla l’ho sempre disegnata.

Ho disegnato le sue case e i suoi colori quando il pensiero di visitarla non costituiva neanche un sogno. In un’altra vita, se altre ce ne sono state o ce ne saranno, io lì devo esserci nata! Bruges ha sfoggiato solo per me il suo sole (ne sono convinta), mentre altrove cielo grigio e minaccioso.

Un grigio che faceva da contorno ai tetti in ardesia, sfumature che sembravano non offrire scampo…

Poi sono tornata e ad attendermi, insieme agli animali festanti, ho trovato la speranza