[...] le lacrime esistono al di là della luce,
al di là della pesantezza,
e persino al di là del silenzio.
E' allora che piangiamo per davvero:
lachrimae verae.
Da questa eloquenza silenziosa
nasce una conversazione infinita.
Parola sensibile,
parola necessaria e impossibile,
la lacrima ha questo di paradossale:
più è discreta, più significa, e più sfiora,
più ci tocca nel profondo.
Stranamente silenziosa,
chiaramente visibile,
risolutamente sospesa,
è una scrittura che esiste solo
nelle sue cancellature [...]
[Da: Jean-Loup Charvet, L’eloquenza delle lacrime, Medusa, 2001]
Le vie del dolore sono infinite.
Così pure le manifestazioni di sofferenza.
Possiamo piangere e scalpitare di ribellione ogni volta che ci viene voglia. Inveire contro il mondo intero, con quelli più fortunati e con quelli che se lo meriterebbero se non fosse che il male non si augura a nessuno.
Possiamo rendere manifesto il dolore, esporlo in ogni sua manifestazione.
Viceversa, possiamo dissimulare in maniera impeccabile e nessuno mai potrà sospettare la valle di lacrime in cui ci troviamo a vivere. E quanto possiamo arrivare a trovarci persino ridicoli per tutte le finzioni e le strategie che siamo capaci di mettere in atto per aggirare il dolore.
Ancora… possiamo stare in mezzo agli altri, per tutto il tempo che ci viene richiesto, in un silenzio composto…al limite un po’ assente. Sì, possiamo costringerci a farlo. Aderire a quest’ultima possibilità per un innato senso della compostezza e della misura, o per tentare di esercitare un controllo sulle emozioni (finendo spesso per patire malamente questa auto-repressione).
Esistono modi di condurre il dolore che attivano silenzi lunghi che non vogliono essere di chiusura assoluta all’esterno. Il dolore silenzioso apprezza e talvolta agogna le attenzioni, discrete e sincere.
Ci sono tante diverse modalità di portare avanti un dolore, tutte mi paiono non solo legittime ma, di più e soprattutto, non soggette a giudizio.
Invece, siccome questi tempi ci autorizzano a giudicare tutto e possibilmente incasellarlo, noto quanti tenaci pregiudizi giacciano in chi è testimone del dolore altrui.
Ho capito che va bene se racconti i fatti tuoi fin nei particolari, allora raccogli partecipazione. Se mantieni la tua riservatezza e fai comunque capire che stai passando un bruttissimo momento, spariscono tutti. Perché se al tuo dolore non dai pubblicamente un nome, quel dolore non ha dignità, non è riconosciuto appoggiato compreso…nessuna pacca sulle spalle, nessuna parola di incoraggiamento da spendere.
Le vie del dolore sono infinite, anche perché abbiamo la presunzione di credere che sia roba degli altri il dolore, o perché il nostro ci sembra unico, ineguagliabile.
Come quando ci si innamora ci si sente primi e unici amanti sulla terra, così nel dolore…nessuno soffre come noi. Quasi quasi esiste pure una gerarchia, un dolore è più importante dell’altro, quella persona è più legittimata di un’altra a soffrire e meritare vicinanza.
Poco si capisce di quanto la sofferenza obblighi ad un contatto strettissimo con le viscere dell’animo umano, quanto modifichi e stravolga lo sguardo sul mondo e sulle cose, quanto costringa a considerare la miseria dei limiti umani.
I cristiani pregano davanti alla croce, se la portano alle labbra. Si accontentano di quel pezzo di legno, anche se nessun Salvatore vi è attaccato. Il rispetto dovuto ai suppliziati finisce per nobilitare l’ignobile apparato del supplizio: non basta amare le creature se non se ne adora la miseria, l’avvilimento, il dolore.
[da: M. Yourcenar, Fuochi, Bompiani, c1984]