19 marzo 2011

nell'indifferenza

Tra le molteplici cose che mi piace fare tutti i giorni, la chiacchierata con mia madre occupa senz’altro un posto di rilievo. Quella donna mi cambia spesso l’umore e spesso in meglio. Parliamo di tutto e di alcune cose importanti che ci investono, ma ho notato che da un po’ di tempo, l’indifferenza umana fa capolino nelle nostre conversazioni con una certa regolarità. In qualche modo, prima o poi, andiamo a parare lì.

Nel nostro progredito presente, quello di lamentarsi del cinismo e della vacuità imperante è un esercizio cui ci dedichiamo più o meno tutti, con minore o maggior fervore. Ognuno di noi, nella propria quotidianità e nei frangenti particolari di vita, ha modo di constatare quanta umanità viene a mancare, la vediamo quasi svanire sotto i nostri occhi increduli.

Increduli i nostri occhi che però qualche volta si incazzano.

Gli occhi di mia madre, che hanno visto 87 inverni, si intristiscono e non si capacitano.

E’ questo a colpirmi al cuore. Non ha avuto una vita facile, eppure è come se la delusione fosse un sentimento a lei sconosciuto nei rapporti con le persone. Così la guardo con pena, dall’alto del mio disincanto. Noi con le delusioni ci siamo cresciuti, forse perché più esposti al mondo, mentre è come se improvvisamente lei si rendesse conto di quanta capacità di arretramento può esserci nell’essere umano, di quanto piccoli si può diventare, crescendo. E non mi sono sentita grande, io, figlia, venuta su in tempi di indagini sociologiche-psicologiche-antropologiche-dietrologiche…

Non mi sono sentita grande a fare da maestra di vita e cercare di spiegare razionalmente le dinamiche umane. In definitiva, ad arrampicarmi sugli specchi.

Io non lo so perché ha attecchito così l’indifferenza, non lo so, col cuore, perché Caino uccide anche senza spargere sangue e mille volte di più uccide con l’indifferenza.

So che accade e che mi sento meno delusa di lei.


[…] Io sono Caino. Non sono l’antenato

non abito un passato favoloso

non sono la pagina di un libro

io non sono il reietto

il primo mal riuscito che s’accantona e si perde

una manovra sbagliata della creazione

io non sono

una patologia malata.

Non sono la favola stantia

di due fratelli nello scenario vuoto

del principio. Io vivo adesso

dentro ogni umano, e lo strattono

fino all’insolenza, fino al delitto

a volte.

[…]

Sono io il mistero

del male che ti attrae

e con cui ti batti. Sempre.

[da:M. Gualtieri, Caino, Einaudi, c2011]

5 marzo 2011

mondi immaginari

Esistono delle condizioni interiori che portano avanti la nostra esistenza, la conducono proprio, indipendentemente dalla nostra volontà… e che, come una malattia invalidante, ci marchiano.

Penso sempre con molta pena al bambino che si porta addosso una paura grande che solo da adulto, forse, imparerà a riconoscere. Esistono delle condizioni che richiedono un dominio che quel bambino non imparerà mai, forse, ad esercitare.

Nelle persone abbandonate, ma anche negli animali, cerco quei primi anni di vita, quello smarrimento. Mi capita di incontrare degli sguardi che hanno quella luce, li riconosco come familiari. E li ho visti pochi giorni fa, in farmacia…una giovane madre col suo bambino che teneva per mano, si stringevano nella stessa sorte. Ho riconosciuto quegli sguardi che sembrano brillare per un’attenzione che vivono come immeritata.

C’è chi reagisce agli abbandoni con un muto e risentito silenzio, chi le tenta tutte per scongiurarli, chi finge di accettare ma ogni tanto ha la tentazione di inutili incursioni nella vita dell’abbandonante.

Non esiste persona al mondo in grado di garantire a qualcuno che mai l’abbandonerà, non possiamo sapere se saremo vittime o carnefici un giorno. E se tutto può tornare utile, in termini di esperienze acquisite, all’abbandono non riesco proprio a riconoscergli alcuna utilità.

Sì, probabilmente ogni abbandono porta con sé l’invito a lasciar andare.

Persone, sentimenti, situazioni che ci vestivano così bene…

Io, di fronte agli abbandoni, sono un po’ come il “peggior sordo che non vuol sentire”.

Ricordo di essermi anche applicata nell’esercizio dell’accettazione. Certe volte penso di avercela messa tutta, ma i risultati sono sempre stati deludenti. Fallisco sempre, non credo di aver accettato davvero nessuno degli abbandoni subiti e, come tutti forse, ho finito per affidarmi al più abusato dei luoghi comuni “solo il tempo può guarire”…


Nel mio mondo immaginario esiste una scuola (pubblica) dove si insegna a gestire gli abbandoni. I docenti sono degli abbandonanti abbandonati e gli allievi sono tutte persone che hanno capito che la paralizzante paura dell’abbandono può rovinare la vita. Perciò hanno scelto quella scuola.

Nel mio mondo immaginario però io posso solo farci un salto di tanto in tanto, perché mi tocca vivere in questo reale, però a quella scuola dedico la maggior parte delle mie risorse (immaginarie).