18 dicembre 2011

...per Scricciola

[il mio murale per te]

Restiamo uniti, dicono i limoni. Ed è così che

noi passeremo la nostra vita con una piccola

croce tracciata a penna rossa sul cuore.


[Roger Vitrac, Il cavallo nero. Da: Dés-Lyre, Gallimard, c1964]


per la mia amatissima Scricciola che si è portata via i sorrisi delle margherite

7 novembre 2011

la bellezza che salva

Quel pomeriggio di fine estate, in quella corsia d’ospedale, avevo le poesie di Rilke con me. Leggevo di rado ma sicuramente dovevo aver pensato qualche mattina che lo spirito avrebbe necessitato di bellezza. Era un momento di attesa e mentre leggevo Rilke mi è venuto alla mente quel libro di Todorov…
Uno degli ultimi pubblicati in Italia lo scorso anno, con una bellissima copertina, e con un titolo che omaggia Dostoevskji.


[Eugene A. Durenne, Therese legge, 1922]

Come spesso accade però, il titolo in lingua originale rende maggior giustizia al contenuto del libro, Les aventuriers de l’absolu: Wilde, Rilke, Cvetaeva. Perché ciò che fa Todorov è proprio questo, attraverso tre dei protagonisti letterari del Novecento, ricerca e analizza il bisogno di infinito che alberga dentro ogni uomo. Questi tre intellettuali avevano in comune, secondo Todorov, un’ideale romantico di bellezza che li spingeva ad una dissociazione dalla vita, un ritirarsene in favore dell’opera d’arte, della creazione estetica. Tutti e tre parlano d’amore, ma di fatto rifuggono l’amore applicato, quel vivere l’altro davvero dentro di sé.

E’ un saggio godibile e a tratti, durante la lettura, sembra di trovarsi seduti al tavolino di un Caffè con questi grandi, e se uno ama uno scrittore, un poeta, ha piacere a sentir raccontare di lui.

Di Oscar Wilde negli anni giovanili ho divorato l’opera omnia ma le pagine che più amo sono quelle del De Profundis, perché lì trovo l’umano dolore, la sofferenza più acuta che mi parla di Wilde uomo, non solo del genio artistico di tante altre sue opere. Lì, in quelle pagine, vedo la fusione tra vita e opera d’arte. Alcuni versi di Rilke rinnovano ogni volta l’incanto e spesso mi offrono la possibilità di sfogliare emozioni e ricordi come un album fotografico. Ma Rilke, ricorda Todorov, viveva esiliato dalle donne che ispirarono molti suoi versi, e spesso l’uomo e il poeta si muovevano “su piani che non comunicano tra loro”. E Marina Cvetaeva… viveva per lo più all’ombra dei grandi cui si era legata, quasi dimentica di se stessa si dedicava ad una forsennata ricerca della bellezza (anche se, a differenza di Rilke, desiderava l’incontro fisico).


Infine cos’è questa ricerca di eterno, di assoluto, di infinito che mal si coniuga con la vita reale?

Vita contemplativa o vita agita, esposta agli eventi, partecipata…Questo ci è dato di scegliere.

Quel pomeriggio, in quel momento di attesa, ho pensato che la bellezza salva quella parte di umanità che sta bene, o che è nelle condizioni di accoglierla…gli altri, quelli che di essa possono venir privati, restano allora dannati, perché la bellezza può non arrivare a tutti.

Però poi ho trovato conforto in questo pensiero: che per questi ultimi, la bellezza viene dall’amore che alita intorno, ed è un amore di vita partecipata.

Per questo oggi, a distanza di tempo dalla lettura di quel libro, penso che la vera bellezza della vita risieda proprio nell’amore che circola laddove la bellezza non può arrivare.

6 ottobre 2011

un bel carretto

Da un po’ di tempo, al mattino, proprio quando il cielo inizia a rischiararsi e a salutare la notte, i miei cani innescano un gioco all’inseguimento per tutta la campagna, e spesso decidono di incontrarsi sotto la mia finestra. Mentre aspetto che la sveglia butti giù dal letto il mio broncio, li ascolto invidiando tutta quella energia. Forse si rincorrono, così di buon mattino, per sgranchirsi le ossa, di sicuro c’è che salutano il nuovo giorno con allegria, a dispetto della mia resistenza ad accoglierlo, certe mattine, questo nuovo giorno.


Penso che a dare inizio ai giochi sia quella pazza scatenata di Didì e la sua sfacciata allegria, Leo per forza di cose la asseconda ; perché Leo ha bisogno di una spinta, e anche di un bel carretto che trasporti la sua stanchezza.


A volte è giusto quello che ci vuole.


29 luglio 2011

le vie del dolore

[...] le lacrime esistono al di là della luce,
al di là della pesantezza,
e persino al di là del silenzio.
E' allora che piangiamo per davvero:
lachrimae verae.
Da questa eloquenza silenziosa
nasce una conversazione infinita.
Parola sensibile,
parola necessaria e impossibile,
la lacrima ha questo di paradossale:
più è discreta, più significa, e più sfiora,
più ci tocca nel profondo.
Stranamente silenziosa,
chiaramente visibile,
risolutamente sospesa,
è una scrittura che esiste solo
nelle sue cancellature [...]

[Da: Jean-Loup Charvet, L’eloquenza delle lacrime, Medusa, 2001]


Le vie del dolore sono infinite.

Così pure le manifestazioni di sofferenza.

Possiamo piangere e scalpitare di ribellione ogni volta che ci viene voglia. Inveire contro il mondo intero, con quelli più fortunati e con quelli che se lo meriterebbero se non fosse che il male non si augura a nessuno.

Possiamo rendere manifesto il dolore, esporlo in ogni sua manifestazione.

Viceversa, possiamo dissimulare in maniera impeccabile e nessuno mai potrà sospettare la valle di lacrime in cui ci troviamo a vivere. E quanto possiamo arrivare a trovarci persino ridicoli per tutte le finzioni e le strategie che siamo capaci di mettere in atto per aggirare il dolore.

Ancora… possiamo stare in mezzo agli altri, per tutto il tempo che ci viene richiesto, in un silenzio composto…al limite un po’ assente. Sì, possiamo costringerci a farlo. Aderire a quest’ultima possibilità per un innato senso della compostezza e della misura, o per tentare di esercitare un controllo sulle emozioni (finendo spesso per patire malamente questa auto-repressione).

Esistono modi di condurre il dolore che attivano silenzi lunghi che non vogliono essere di chiusura assoluta all’esterno. Il dolore silenzioso apprezza e talvolta agogna le attenzioni, discrete e sincere.

Ci sono tante diverse modalità di portare avanti un dolore, tutte mi paiono non solo legittime ma, di più e soprattutto, non soggette a giudizio.

Invece, siccome questi tempi ci autorizzano a giudicare tutto e possibilmente incasellarlo, noto quanti tenaci pregiudizi giacciano in chi è testimone del dolore altrui.

Ho capito che va bene se racconti i fatti tuoi fin nei particolari, allora raccogli partecipazione. Se mantieni la tua riservatezza e fai comunque capire che stai passando un bruttissimo momento, spariscono tutti. Perché se al tuo dolore non dai pubblicamente un nome, quel dolore non ha dignità, non è riconosciuto appoggiato compreso…nessuna pacca sulle spalle, nessuna parola di incoraggiamento da spendere.

Le vie del dolore sono infinite, anche perché abbiamo la presunzione di credere che sia roba degli altri il dolore, o perché il nostro ci sembra unico, ineguagliabile.

Come quando ci si innamora ci si sente primi e unici amanti sulla terra, così nel dolore…nessuno soffre come noi. Quasi quasi esiste pure una gerarchia, un dolore è più importante dell’altro, quella persona è più legittimata di un’altra a soffrire e meritare vicinanza.

Poco si capisce di quanto la sofferenza obblighi ad un contatto strettissimo con le viscere dell’animo umano, quanto modifichi e stravolga lo sguardo sul mondo e sulle cose, quanto costringa a considerare la miseria dei limiti umani.

I cristiani pregano davanti alla croce, se la portano alle labbra. Si accontentano di quel pezzo di legno, anche se nessun Salvatore vi è attaccato. Il rispetto dovuto ai suppliziati finisce per nobilitare l’ignobile apparato del supplizio: non basta amare le creature se non se ne adora la miseria, l’avvilimento, il dolore.

[da: M. Yourcenar, Fuochi, Bompiani, c1984]

19 maggio 2011

tasche vuote

E’ stata una sequenza di cose tristi e crudeli ad avermi rubato il tempo.
Soprattutto il tempo mentale.
E’ questo concatenarsi di eventi a tenermi lontana dalle mie e dalle vostre pagine.
Mi sento grata ai fedeli amici che hanno continuato a prendersi cura di me, scrivendomi privatamente anche quando il mio silenzio poteva apparire respingente. E ci penso a questo mondo virtuale che fino a poco tempo fa mi camminava a fianco…
Ci penso ma non so rientrarci.
Ora non ho la forza di parlare delle fatiche, ma nell’alienazione di questo lungo brutto periodo, non ho perso l’abitudine di annotare le piccole cose belle, così estraggo un paio di note che si sono distinte per la bellezza e la vita che portavano:

La prima nota è il parto della gattina Tania

La seconda è la partecipazione al progetto

Haiku4Happiness

che mi ha riportata tra i colori per qualche momento e al quale vi chiedo appassionatamente di aderire scaricando l’ebook.

L’esplosione di fiori tutto attorno è il monito che mi si presenta ogni momento…

A tutto ciò che, sempre, mi ha parlato di speranza continuo ad abbeverarmi, però quando metto le mani in tasca le trovo sempre vuote…


Il parto di Tania…4 minuscoli gattini che accudisce con cura straordinaria. Al suo primo parto, è stata bravissima e io la studio ammirata. Zac, indiscutibilmente uno dei padri, si è mostrato da subito stanchissimo come se a partorire fosse stato lui!
Dopo qualche giorno, la natura vuole che mamma gatta stia responsabilmente incollata ai piccoli insaziabili, notte e giorno, mentre Zac è già preso da altre femmine e si concede il lusso di sparire. Una sera, dopo 2 giorni di assenza del suo compagno, Tania era agitata e mi guardava smarrita, io ho cercato di starle vicina senza dire niente, giusto qualche coccola supplementare. Ma quando Zac si è ripresentato, giuro che l'ho guardato contrariata pensando:

“Questa casa non è un albergo! ”


8 aprile 2011

2 aprile 2011

sacrifici

[Hiroshige, Gufo su un acero sotto la luna piena, 1832-1833 ca.]

Chissà chi sarà chiamato a dare risposte ai bambini, tutti, colpiti dagli ultimi drammatici avvenimenti.

I centomila e più di Sendai e quelli del disperato mondo arabo in fuga dalle dittature. I bambini giapponesi che disegnano… molti di loro non riescono più ad usare il rosa.

Il bambino nato in alto mare, in una delle tante carrette dirette alle nostre coste.

Un esserino venuto al mondo a dispetto di tutto, che la madre ha chiamato Yeabsera: dono di dio.

E per un bimbo che nasce un altro muore, nelle notti fredde che vedono lo sradicamento di un’umanità errante.


Ai piccoli del Giappone si potrà spiegare che la natura può vendicarsi e scatenare terremoti e tsunami e che l’uomo è tremendamente abile a scatenarli. A loro bisognerà ricordare, ma se per questo al mondo intero, il gesto eroico del volontario che per salvare i compagni più giovani, si è finto esperto del reattore 4. Quell’uomo ha detto di aver trovato, con quel gesto, un senso alla sua vita, ma spera anche che questo suo sacrificio serva al Paese per riflettere sul nucleare.

I bambini sono i pacchetti della miseria che trasportiamo, figli di una disperazione che non conosce democrazia né quando lascia le proprie sponde né quando ne raggiunge di nuove.

In Giappone ci sono migliaia di bambini che nello tsunami hanno perso anche l’identità e non sanno più se la loro famiglia si è salvata. Disegnano e realizzano origami, nella loro cultura un’antica leggenda dice che se costruisci 1000 gru di carta vedrai realizzati i tuoi desideri.

I bambini del Giappone sono raccolti in centri di accoglienza improvvisati e perfettamente organizzati; i piccoli profughi a Lampedusa separati, per prassi, dagli adulti rischiano di sparire e, dal momento che sono ancora in attesa di identificazione, nessuno saprà mai più niente di loro.


Ci penso continuamente a questi germogli, così spaventati e feriti a morte. E quando sento parlare di ricostruzione penso proprio a quelle creature, ai loro animi e alle realtà da reinventare.

A quegli occhi spalancati su mille pericoli. Perché i bambini non scelgono ma sono i primi a subire.

19 marzo 2011

nell'indifferenza

Tra le molteplici cose che mi piace fare tutti i giorni, la chiacchierata con mia madre occupa senz’altro un posto di rilievo. Quella donna mi cambia spesso l’umore e spesso in meglio. Parliamo di tutto e di alcune cose importanti che ci investono, ma ho notato che da un po’ di tempo, l’indifferenza umana fa capolino nelle nostre conversazioni con una certa regolarità. In qualche modo, prima o poi, andiamo a parare lì.

Nel nostro progredito presente, quello di lamentarsi del cinismo e della vacuità imperante è un esercizio cui ci dedichiamo più o meno tutti, con minore o maggior fervore. Ognuno di noi, nella propria quotidianità e nei frangenti particolari di vita, ha modo di constatare quanta umanità viene a mancare, la vediamo quasi svanire sotto i nostri occhi increduli.

Increduli i nostri occhi che però qualche volta si incazzano.

Gli occhi di mia madre, che hanno visto 87 inverni, si intristiscono e non si capacitano.

E’ questo a colpirmi al cuore. Non ha avuto una vita facile, eppure è come se la delusione fosse un sentimento a lei sconosciuto nei rapporti con le persone. Così la guardo con pena, dall’alto del mio disincanto. Noi con le delusioni ci siamo cresciuti, forse perché più esposti al mondo, mentre è come se improvvisamente lei si rendesse conto di quanta capacità di arretramento può esserci nell’essere umano, di quanto piccoli si può diventare, crescendo. E non mi sono sentita grande, io, figlia, venuta su in tempi di indagini sociologiche-psicologiche-antropologiche-dietrologiche…

Non mi sono sentita grande a fare da maestra di vita e cercare di spiegare razionalmente le dinamiche umane. In definitiva, ad arrampicarmi sugli specchi.

Io non lo so perché ha attecchito così l’indifferenza, non lo so, col cuore, perché Caino uccide anche senza spargere sangue e mille volte di più uccide con l’indifferenza.

So che accade e che mi sento meno delusa di lei.


[…] Io sono Caino. Non sono l’antenato

non abito un passato favoloso

non sono la pagina di un libro

io non sono il reietto

il primo mal riuscito che s’accantona e si perde

una manovra sbagliata della creazione

io non sono

una patologia malata.

Non sono la favola stantia

di due fratelli nello scenario vuoto

del principio. Io vivo adesso

dentro ogni umano, e lo strattono

fino all’insolenza, fino al delitto

a volte.

[…]

Sono io il mistero

del male che ti attrae

e con cui ti batti. Sempre.

[da:M. Gualtieri, Caino, Einaudi, c2011]

5 marzo 2011

mondi immaginari

Esistono delle condizioni interiori che portano avanti la nostra esistenza, la conducono proprio, indipendentemente dalla nostra volontà… e che, come una malattia invalidante, ci marchiano.

Penso sempre con molta pena al bambino che si porta addosso una paura grande che solo da adulto, forse, imparerà a riconoscere. Esistono delle condizioni che richiedono un dominio che quel bambino non imparerà mai, forse, ad esercitare.

Nelle persone abbandonate, ma anche negli animali, cerco quei primi anni di vita, quello smarrimento. Mi capita di incontrare degli sguardi che hanno quella luce, li riconosco come familiari. E li ho visti pochi giorni fa, in farmacia…una giovane madre col suo bambino che teneva per mano, si stringevano nella stessa sorte. Ho riconosciuto quegli sguardi che sembrano brillare per un’attenzione che vivono come immeritata.

C’è chi reagisce agli abbandoni con un muto e risentito silenzio, chi le tenta tutte per scongiurarli, chi finge di accettare ma ogni tanto ha la tentazione di inutili incursioni nella vita dell’abbandonante.

Non esiste persona al mondo in grado di garantire a qualcuno che mai l’abbandonerà, non possiamo sapere se saremo vittime o carnefici un giorno. E se tutto può tornare utile, in termini di esperienze acquisite, all’abbandono non riesco proprio a riconoscergli alcuna utilità.

Sì, probabilmente ogni abbandono porta con sé l’invito a lasciar andare.

Persone, sentimenti, situazioni che ci vestivano così bene…

Io, di fronte agli abbandoni, sono un po’ come il “peggior sordo che non vuol sentire”.

Ricordo di essermi anche applicata nell’esercizio dell’accettazione. Certe volte penso di avercela messa tutta, ma i risultati sono sempre stati deludenti. Fallisco sempre, non credo di aver accettato davvero nessuno degli abbandoni subiti e, come tutti forse, ho finito per affidarmi al più abusato dei luoghi comuni “solo il tempo può guarire”…


Nel mio mondo immaginario esiste una scuola (pubblica) dove si insegna a gestire gli abbandoni. I docenti sono degli abbandonanti abbandonati e gli allievi sono tutte persone che hanno capito che la paralizzante paura dell’abbandono può rovinare la vita. Perciò hanno scelto quella scuola.

Nel mio mondo immaginario però io posso solo farci un salto di tanto in tanto, perché mi tocca vivere in questo reale, però a quella scuola dedico la maggior parte delle mie risorse (immaginarie).

27 febbraio 2011

...altri scongiuri...

frontespizio di un libro in lingua logudorese

trad.: Piuttosto che non essere comunista
meglio (essere) sorcio

22 gennaio 2011

La buona ora

Bae in bon’ora, dicono i vecchi qui da noi quando ci salutano.

Che sia buona l’ora in cui vai via.

E’ un modo di lasciarti andare benedicendoti e, sebbene ormai avrei dovuto farci l’abitudine, mi capita ancora di rimanerne colpita.


E’ sempre una buona ora

quella che ci chiama ad alzare la testa, e ci intima di agire, di imprimere una nuova determinazione nelle piccole cose, che per quello sono le più grandi.

E’ una buona ora quella che ci fa intravvedere orizzonti possibili e ci regala il lusso dell’immaginazione. E’ l’ora giusta quella che ci fa conoscere una tregua nel dolore.

E anche quel momento preciso in cui lasciamo le zavorre, è una buona ora, quello in cui facciamo passare i brividi buoni e dissotterriamo gli abbracci nascosti.

Dalla lontananza, dalla distrazione, dalla paura…

E’ sempre una buona ora quella che ci vede prenderci cura di noi stessi.

11 gennaio 2011

esimersi

Volevo chiudere gli occhi su questo mio tempo difficile, e su quello difficile per tutti.

Sul ricatto agli operai, ché una cosa così non si era mai vista.

Tapparmi le orecchie,

non ascoltare l’ultima invettiva del santo padre sull’educazione sessuale…

Chiudere gli occhi sul neonato morto di freddo a Bologna, certamente nell’indifferenza più o meno generale.

Volevo esimermi, non sentire altro. Difendermi dall’assalto del brutto e del peggio.


Ma avevo coltivato sufficiente speranza…

Durante la mia infanzia, la fine dell’estate era sancita dall’approvvigionamento della legna per l’inverno. Una volta sistemati i ciocchi, ci si sentiva veramente al riparo da tutto. Questa esperienza mi è rimasta incollata addosso e per fortuna, quest’anno, insieme alla provvista della legna per l’inverno avevo sistemato anche la provvista di fiducia, senza quella sì che si sta al freddo!