25 maggio 2012

un piccolo frangente


Il mio luogo di lavoro è (grazieaddio) decentrato rispetto alla città, ma qualche volta, per motivi di lavoro, devo recarmi al centro, e per questi spostamenti mi servo dell’autobus.
Ho sempre pensato che, anche chi è abituato a muoversi con la propria auto, dovrebbe provare ogni tanto a salire su un autobus.
Come sa bene chi è abituato invece ad usarlo, sull’autobus si incontra uno spaccato di umanità che quasi mai lascia indifferenti. Nei miei brevi spostamenti i passeggeri più frequenti, molti proprio pendolari tutti i giorni, sono pochi impiegati e molti contadini e contadine che raggiungono le rispettive campagne dell’agro intorno. Questi ultimi portano sempre delle buste piuttosto cariche e si conoscono tutti, perciò a volte partono delle discussioni con un volume di voce adatto più ad ampi spazi aperti che ad uno strettissimo autobus (a me, sta stretto).
Inutile dire che questo mi piace tantissimo, ascoltarli, spesso, è una piacevole distrazione ma oggi è stato diverso…
Il tragitto che seguo passa di fronte alla Caritas, o qualcosa di simile, un luogo preciso dove viene distribuito del cibo agli indigenti.
E ho visto sbalordita la fila ingrossarsi sempre di più, una moltitudine di persone che non ce la fa a fare la spesa alimentare. A comprare i beni di prima necessità. Fantasmi che mascherano in “due chiacchiere con amici” una dignità calpestata, visibile ai passeggeri di un autobus come a qualunque passante.
I pochi impiegati sull’autobus sostengono con sorrisi sarcastici che molti di loro non hanno realmente bisogno, ma noto compiaciuta che le contadine e i contadini non danno retta alle loro insinuazioni.
Io, come sempre, sono combattuta.
Se distolgo lo sguardo posso apparire indifferente e dare l’impressione così che loro per me sono invisibili. Se li guardo ho paura di non rispettare la volontà di chi penso vorrebbe passare inosservato. A chi devo dare retta?

Alla spontaneità, li guardo, perché devo sapere che esiste questo stato di cose, se il mio sguardo ha il potere di trasmettere i miei pensieri, sapranno che sono con loro, sono vicina, e mi dispiace, perché non è per niente giusto. Ecco…un piccolo frangente di una giornata qualunque, un piccolo frangente che fa rumore.

21 maggio 2012

...la curiosità...




è cosa buona e giusta


19 maggio 2012

...rieccola





a Brindisi, di fronte a una scuola,
la strategia della tensione

Sdegno sdegno sdegno

12 maggio 2012

...dal carretto degli interrogativi



Molto tempo fa ho scritto un post per raccontare di un libro dal titolo La grande domanda, e se volete potete leggerlo qui.

Nella mia vita ribaltata, Ora, inizio ad immaginare di incontrare gli stessi personaggi ma a cambiare è  la domanda. Dal carrettino degli interrogativi che mi porto sempre appresso, è spuntata fuori una domanda che è l’inverso di quella del libro. Quello che voglio sapere adesso non è perché veniamo al mondo, voglio sapere perché ne veniamo sottratti. (E senza entrare nel merito del come…)

[A dirla tutta, ho capito che a me questo mondo dove si entra e si esce una sola volta non mi piace proprio per niente, troppo troppo restrittivo!]

Forse le risposte più probabili alla nuova domanda sarebbero:

perché ogni cosa ha un inizio e una fine
perché non si sopporta più il peso della vita
perché lo si sopporta amandola troppo
perché la crudeltà può essere parte integrante del percorso
perché ogni cosa è scritta
perché siamo alberi e non pietre, gli alberi crescono, prosperano e muoiono
le pietre si consumano secondo me quando sono già stanche di esserci
perché la bellezza persino lì risiede, a volerla vedere
perché era necessario lasciare un insegnamento
(e l’insegnamento può essere quello di amare di più la vita, come suggeriva La Morte in quel libro)
perché si potesse capire meglio il segreto dell’amore
perché…


P.S.: il genialissimo Wolf Erlbruch si è occupato anche del tema della morte raccontata ai ragazzi in L'anatra, la morte e il tulipano e se ne può vedere il video qui

5 maggio 2012

pensandola...sempre


Non mi genufletto davanti ad un altare
Non mi rivolgo a nessuna divinità
Perché mi sento afona
E’ la natura a soccorrermi,
quando mi accorgo che il mondo va avanti
senza i tuoi grandi occhi
E interrogo il vento e le nuvole, i rami e le foglie
persino l’acqua che scorre e i giorni di siccità.
Avevo dita contadine che si affaccendavano e gioivano
Ora domandando si rivolgono a ciò che le circonda e
che, nonostante tutto, continua a prosperare.
Sopravvivere è anche questa atrocità:
una realtà sbattuta in faccia al risveglio, i silenzi che chiedono conforto,
la paura di dimenticare gesti e sguardi e toni di voce
la paura che il tempo non lenisca
perché io non voglio dimenticare.

(sempre per Scricciola che mi manca come l'aria)

1 maggio 2012

la vita è il costo del tuo lavoro


di Edoardo Nesi 
Il costo del tuo lavoro è la vita. La tua vita. Sei un'operaia e vai ogni giorno a lavorare in uno scantinato. Lo scantinato è un opificio. Una maglieria. Tu confezioni maglie. Un giorno cominci a sentire strani rumori che non hai mai sentito prima.
Sono come dei gemiti, degli scricchiolii. Non vengono dalla strada vicina, o dalle macchine davanti alle quali lavori. Vengono dalle mura del palazzo. Ti chiedi cosa possano voler dire. Non puoi accettare che siano ciò che pensi. Ti dici che forse è normale sentire degli scricchiolii, in un palazzo così vecchio. E continui ad andare a lavorare. Ogni giorno. Ti chiedi se non dovresti parlarne con qualcuno. Coi sindacati, coi vigili. Con la polizia. Coi carabinieri. Ma non lo fai. Ti scordi di farlo. Preferisci scordarti di farlo, forse. Ogni giorno vai avanti, e torni lì, a lavorare. Perché devi. Devi pagare la spesa, i vestiti dei bambini, il mutuo. Continui a lavorare. È quello che fai, che hai sempre fatto. Lavori sepolta in uno scantinato per combattere la concorrenza di altri disgraziati come te. Sei impegnata in una competizione crudele con altri lavoratori che lavorano in altre fabbriche, in tutto il mondo. Fabbriche probabilmente più sicure dello scantinato in cui lavori tu. Ma non importa. Devi lavorare e lavorerai. Non credi davvero possibile che un palazzo possa cadere. E poi, proprio su di te. Ti dici che queste cose è molto difficile che succedano. Che non succederà proprio a te.
Il costo del tuo lavoro è la tua vita, ragazza mia. E non dovrebbe essere così. Non è giusto che sia così. Non quando con il tuo lavoro stai producendo parte dell'eccellenza mondiale. Il Made in Italy. Perché non importa quale sia la qualità delle maglie che produci. È merce fatta in Italia. Ha un valore misurabile, e lo si applica a ogni straccio e a ogni accessorio che venga prodotto nel nostro Paese. Da chiunque. Decine e decine di migliaia di cinesi sono venuti e continuano a venire a lavorare in Italia, chiusi in scantinati come il tuo, per poter produrre merce Made in Italy. Sei parte di una catena di lavoro che un tempo era una cosa gloriosa, ragazza mia, l'orgoglio e il vanto della nostra nazione, e oggi invece non ha più alcun senso. Ricordalo, e salvati.

Da: Il Corriere della Sera 4/10/11
Dedicata alla tragedia per il crollo della palazzina a Barletta in cui nel 2011 persero la vita quattro operaie di un opificio e una ragazzina di 14 anni.